Leggendo Levinas

Domenica 29 agosto 2021

 

Emmanuel Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (Milano 1998; tit. or. Totalité et infini, La Haye 1961)

 

L’originalità della separazione ci è sembrata consistere nell’autonomia dell’essere separato. E, per questo, nella conoscenza o più esattamente nella sua pretesa, il conoscente non partecipa né si unisce all’essere conosciuto. La relazione di verità implica così una dimensione di interiorità - uno psichismo nel quale colui che si occupa del metafisico, rapportandosi al Metafisico, si tiene al riparo. Ma abbiamo anche indicato che questo rapporto di verità che, ad un tempo, colma e non colma la distanza - non forma alcuna totalità con l’ “altra riva” - si fonda sul linguaggio: relazione in cui i termini si assolvono dalla relazione - restano assoluti nella relazione. Senza questa assoluzione, la distanza assoluta della metafisica sarebbe illusoria.

La conoscenza d’oggetti non garantisce un rapporto i cui termini sarebbero in grado di assolversi dalla relazione. La conoscenza oggettiva può certo restare disinteressata, essa porta comunque il segno del modo in cui l’essere conoscente è andato incontro al Reale. Riconoscere la verità come svelamento significa rapportarla all’orizzonte di colui che svela. […]

Se l’oggetto si riferisce così al progetto e al lavoro del conoscente, questo significa che la conoscenza oggettiva è una relazione con l’essere che è sempre oltrepassato e sempre da interpretare. […] Infatti conoscere oggettivamente significa conoscere lo storico, il fatto, il già fatto, il già oltrepassato. Lo storico non è definito dal passato - e lo storico e il passato si definiscono come temi di cui si può parlare. Essi sono tematizzati appunto perché non parlano più. Lo storico è assente per sempre dalla sua stessa presenza. […] Questo mondo che ha perduto il suo principio, an-archico - mondo dei fenomeni - non risponde alla ricerca del vero, è sufficiente al godimento che è la sufficienza stessa, assolutamente non disturbata dallo scarto che l’esteriorità oppone alla ricerca del vero. […]

La manifestazione del kath’auto, in cui l’essere ci concerne senza sottrarsi e senza tradirsi - non consiste affatto per esso nell’essere svelato, nello scoprirsi di fronte allo sguardo che lo prenderebbe come tema di interpretazione e che avrebbe una posizione assoluta che domina l’oggetto. La manifestazione kath’auto consiste per l’essere nel dirsi a noi, indipendentemente da qualsiasi posizione che noi potremmo aver preso nei suoi confronti, nell’esprimersi. Qui, contrariamente a tutte le condizioni della visibilità degli oggetti, l’essere non si situa nella luce di un altro, ma si presenta da sé nella manifestazione che deve soltanto annunciarlo, è presente come colui che dirige questa manifestazione stessa - presente prima della manifestazione che semplicemente lo manifesta. L’esperienza assoluta non è svelamento ma rivelazione: coincidenza di ciò che è espresso e di chi esprime, manifestazione, per ciò stesso privilegiata, di Altri, manifestazione di un volto al di là della forma. La forma che tradisce incessantemente la sua manifestazione - fissandosi in forma plastica, in quanto adeguata al Medesimo, aliena l’esteriorità dell’Altro. Il volto è una presenza viva, è espressione. La vita dell’espressione consiste nel disfare la forma nella quale l’ente, che si espone come tema, finisce, per ciò stesso, con il nascondersi. Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso. Chi si manifesta, secondo quanto dice Platone, dà aiuto a sé stesso. In ogni istante disfa la forma che offre.

Questo modo di disfare la forma adeguata al Medesimo per presentarsi come Altro è significare o avere un senso. Presentarsi significando è parlare. […] Il significato non è un’essenza ideale o una relazione offerta all’intuizione intellettuale, ancora analoga in questo alla sensazione offerta all’occhio. Esso è , per eccellenza, la presenza dell’esteriorità. Il discorso non è semplicemente una modificazione dell’intuizione (o del pensiero), ma una relazione originaria con l’essere esterno. Esso non è uno spiacevole difetto di un essere privo di intuizione intellettuale - come se l’intuizione che è un pensiero solitario, fosse il modello della correttezza nella relazione. È la produzione di senso. Il senso non si produce come un’essenza ideale - è detto e insegnato dalla presenza, e l’insegnamento non si riduce all’intuizione sensibile o intellettuale, che è il pensiero del Medesimo. Dare un senso alla presenza è un evento irriducibile alla evidenza. Non rientra in un’intuizione. È, ad un tempo, una presenza più diretta della manifestazione visibile e una presenza lontana - quella dell’altro. Presenza che domina chi l’accoglie, che viene dall’alto, imprevista e, quindi, che insegna proprio la sua novità. Essa è la franca presenza di un ente che può mentire, cioè dispone del tema che offre, senza potervi nascondere la sua franchezza di interlocutore, che lotta sempre a viso aperto. Attraverso la maschera si intravvedono gli occhi, l’indissimulabile linguaggio degli occhi. L’occhio non brilla, parla. […]

L’azione non esprime. Ha un senso ma ci guida verso l’agente in sua assenza. Incontrare qualcuno a partire dalle opere significa entrare nella sua interiorità, come per effrazione; l’altro è sorpreso nella sua intimità, nella quale certo si espone, ma non si esprime, come i personaggi della storia. Le opere significano il loro autore, ma indirettamente, alla terza persona. […]

L’esperienza assoluta non è svelamento. Svelare, a partire da un orizzonte soggettivo significa già perdere il noumeno. Solo l’interlocutore è il termine di un’esperienza pura in cui altri entra in relazione, pur rimanendo kath’auto; in cui si esprime senza che lo si debba svelare a partire da un “punto di vista”, in una luce fittizia. L’ “oggettività” cercata dalla conoscenza pienamente conoscenza si attua al di là dell’oggettività dell’oggetto. L’interlocutore il cui modo consiste nel partire da sé, nell’essere straniero e, tuttavia, nel presentarsi a me, è ciò che si presenta come indipendente da ogni movimento soggettivo. […]

il Medesimo si dirige verso l’assolutamente altro solo in conseguenza dell’appello d’Altri. La rivelazione costituisce un vero e proprio rovesciamento nei confronti della conoscenza oggettivante. […] in Heidegger, l’intersoggettività è coesistenza, un noi anteriore a Me e all’Altro, un’intersoggettività neutra. Il faccia a faccia annuncia una società e, nello stesso tempo, permette di mantenere un Io separato. […]

La pretesa di sapere e di raggiungere l’Altro, si attua nella relazione con altri, che si insinua nella relazione del linguaggio la cui essenza sta nell’interpellanza, nel vocativo. L’altro si mantiene e si conferma nella sua eterogeneità non appena lo si interpelli e foss’anche per dirgli che non gli si può parlare, per dichiararlo malato, per comunicargli la sua condanna a morte; è colpito, ferito, violentato e, nello stesso tempo, “rispettato”. L’invocato non è quello che io comprendo: non è soggetto a categorie. È quello al quale io parlo - ha riferimento soltanto a sé, non ha quiddità. Ma la struttura formale dell’interpellanza deve essere sviluppata.

L’oggetto della conoscenza è sempre fatto, già fatto e superato. L’interpellato è chiamato alla parola, la sua parola consiste nel “portare aiuto” alla sua parola - nell’essere presente. Questo presente non è fatto di istanti misteriosamente immobilizzati nella durata, ma di una continua ripresa degli istanti che passano ad opera di una presenza che porta loro aiuto, che ne risponde. Questa continuità produce il presente, è la presentazione, - la vita - del presente. Come se la presenza di chi parla invertisse il movimento inevitabile che porta la parola detta verso il passato della parola scritta. L’espressione è questa attualizzazione dell’attuale. Il presente si produce in questa lotta (se così si può dire) contro il passato, in questa attualizzazione. L’attualità unica della parola la sottrae alla situazione nella quale essa appare e che sembra prolungare. Essa porta ciò di cui la parola scritta è già priva: la maestria. La parola, molto di più che un mero segno, è essenzialmente magistrale. Essa insegna innanzitutto proprio questo insegnamento, grazie al quale essa può soltanto insegnare (e non, come la maieutica, risvegliare in me) cose ed idee. Le idee mi istruiscono a partire dal maestro che me le presenta: che le mette in causa; l’oggettivazione e il tema cui accede la conoscenza oggettiva si fondano già sull’insegnamento. La messa in questione delle cose in un dialogo non è la modificazione della loro percezione, essa coincide con la loro oggettivazione. L’oggetto si offre quando abbiamo dato accoglienza ad un interlocutore. Il maestro - coincidenza dell’insegnamento e dell’insegnante - a sua volta, non è un fatto qualunque. Il presente della manifestazione del maestro che insegna, supera l’anarchia del fatto.

Il linguaggio non condiziona la coscienza col pretesto che fornisce alla coscienza di sé un’incarnazione in un’opera oggettiva che sarebbe il linguaggio, come vorrebbero gli hegeliani. L’esteriorità delineata dal linguaggio - relazione con Altri - non assomiglia all’esteriorità di un’opera, poiché l’esteriorità oggettiva dell’opera si situa già nel mondo instaurato dal linguaggio cioè la trascendenza.

(dal paragrafo 3, Il discorso, del capitolo B, Separazione e discorso, della sezione prima, Il Medesimo e l’Altro, pp.62-68)


Questo paragrafo è giustamente intitolato Il discorso. Da esso è ricavabile una sorta di fenomenologia della parola, articolata, come sempre in Levinas, su tre livelli. Al primo livello, c’è il mondo delle cose: esso è semplicemente muto, privo di parola. È quello che più avanti il filosofo lituano chiamerà elementale o il y a: essere come presenza opaca delle cose.

Finalmente, con l’apparire del Medesimo, brilla in questo essere anonimo la luce dell’interiorità. Il soggetto nasce come separazione dal mondo delle cose. Da questa posizione di separazione, egli può quindi dare un nome alle cose, che diventano oggetti, etimologicamente quel che sta di fronte allo sguardo di un soggetto. A questo livello, il secondo, il linguaggio appare come tematizzazione, come facoltà dell’io di comprendere e afferrare il mondo, di dominarlo: è il linguaggio oggettivo, concettuale. Chiamando le cose per nome, il soggetto sta nel mondo come a casa propria: se il linguaggio nasce dalla separazione e contrapposizione tra soggetto e oggetto, esso diviene però inevitabilmente strumento di un imperialismo del Medesimo. Questo stato di cose, osserva Levinas, non cambia con Heidegger, nel quale le cose ricevono un nome all’interno dell’orizzonte di senso aperto dall’essere per mezzo dell’esserci: l’essere infatti è anonimo e l’orizzonte di senso è reso possibile comunque solo dallo sguardo del soggetto.

Ma ecco che proprio il soggetto può fare esperienza di un altro tipo di linguaggio: il linguaggio allocutorio. La parola non è più riflesso di un concetto, ma invocazione rivolta da Altri: il senso non è più essenza ideale, pensiero solitario, coglibile attraverso un’intuizione immediata o il monologo della Ragione; il senso è piuttosto la relazione stessa con Altri che mi rivolge la parola: il senso è detto e insegnato dalla presenza di Altri che mi parla. La parola non è più strumento di dominio nelle mani del Medesimo, ma luogo della relazione metafisica: è questo il terzo livello, più profondo e originario, del linguaggio. Nel linguaggio allocutorio i due interlocutori sono assolti da un rapporto di partecipazione reciproca, da un’unità che li ricomprenda; restano separati e autonomi, pur nello stesso tempo essendo in relazione l’uno con l’altro. Discorso è appunto disfare continuamente la forma, disdire il detto, perché la parola non venga ridotta nuovamente a tema, a concetto. Ciò è reso possibile dal fatto che nel discorso la parola è orale: è pronunciata da un parlante. La parola diventa così rivelazione di un’alterità assoluta, irriducibile al Medesimo in quanto essa è esteriore, trascendente, kath’auto. Altri che parla è il Maestro: quel che dice non è anticipabile né ripetibile, perché il dire vive dell’identità immediata di dicente e detto; in questo senso, è espressione immediata. Nell’insegnamento del Maestro si può fare per la prima volta esperienza dell’essere come tempo. Mentre infatti a livello dell’il y a il tempo è assente, pensabile tutt’al più nella forma di un eterno ritorno; mentre a livello della separazione del Medesimo vi è una temporalità esperita solo come presente puntuale, quello del godimento, del vivere-di; nell’insegnamento del Maestro il presente è attualizzato: anziché divenire, nel suo anonimo scorrere, immediatamente passato, fatto storico, il presente si rivela come atto, come presenza vivente.

Il linguaggio nella sua origine, nella sua natura profonda, è questo intervallo dell’interlocuzione, spazio teso tra invocazione e risposta: relazione che tiene a distanza i parlanti, perché se la distanza venisse meno, verrebbe meno il linguaggio stesso e la relazione; relazione che nondimeno fa scoprire l’assoluta alterità dell’altro, che non è oggetto, ma volto, origine a sé stesso e al Medesimo: Altri è presenza che con il suo insegnamento dà senso al tempo, attualizzandolo come presente, e al soggetto, investendolo e chiamandolo a una relazione etica; presenza che con il suo insegnamento si dà come origine del tempo e del soggetto, non più an-archici. Il soggetto si scopre tale, in quanto Altri gli rivolge la parola: è sé stesso, è parlante, non perché in grado di dare un nome alle cose, bensì perché originariamente chiamato per nome da un altro, chiamato a rispondere a un altro che lo interpella. Per questo il modo di essere originario del soggetto non è la comprensione, ma la responsabilità, l’etica, la relazione metafisica con Altri: il cogito cartesiano si trasmuta nel deponente loquor, il pensare si trasmuta nella facoltà di parlare resa possibile da una parola rivoltami, da un originario essere-parlati (in ciò consiste la natura deponente della parola). In questo senso, il pensiero post-moderno è caratterizzato dalla svolta linguistica: il linguaggio come parole, come atto comunicativo, è la migliore messa in mostra e in opera dell’essere come relazione, condizione di ogni comprendere e di ogni agire.

Resta ancora aperta, però, tutta da percorrere, la via per una declinazione cristiana della svolta linguistica post-moderna: la sua specificità consisterà nel pensare l’origine an-archica non nella parola, bensì nella parola fattasi carne; nel pensare pertanto la differenza non nel linguaggio, bensì, anteriormente e ulteriormente rispetto a esso, nel corpo, nella carne. Secondo l’efficace formula coniata da Tertulliano, «Caro salutis cardo»: «la carne è il cardine della salvezza», ovvero, detto heideggerianamente, la carne è il luogo, la dimora, la casa dell’essere.

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