«Siate dunque pazienti (makrothymésate), fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d’autunno e le piogge di primavera» (Gc 5,7: secondo la versione CEI del 1974). Ecco: di fronte all’immensità dell’opera ancora da svolgere, basta alzare lo sguardo ed inspirare profondamente – makrothymía – contemplando l’orizzonte ampio di cui facciamo parte e che al tempo stesso ci supera. Proprio quest’ampiezza può atterrire, certo, ma può divenire altresì liberante: il gioco è molto più grande di noi; noi ne siamo responsabili per questa minuscola porzione, che è il qui ed ora, l’hic et nunc. Il resto, grazie a Dio, ci oltrepassa: spetta agli altri, forse a Dio stesso. L’erba, del resto, pure qualora la si tirasse, non crescerebbe più velocemente. Il tempo allora può diventare l’esperienza di un gioco meraviglioso. Da una parte, l’unicità del proprio ruolo, del proprio nome: solo noi possiamo svolgere quella parte, scrivere quelle parole, vivere la vita, insostituibili. Dall’altra, l’ampiezza del gioco stesso: altri reciteranno la loro parte, Dio stesso compirà l’opera sua (Sal 138/137,8: secondo la versione CEI del 1974). Unicità di sé e dell’altro da sé, in una correlazione che supera entrambi: la vita così può assumere la forma di un gioco che, quanto più sia conosciuto, tanto più è avvincente (come avviene, del resto, per qualunque arte appresa dagli uomini); quanto meno lo si tenga in pugno, tanto più risulta bello, sempre più bello.
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