Leggere e pregare il Vangelo è bere ogni giorno quel latte (1 Pt 2,2) che ci fa crescere − fino a raggiungere la somiglianza con l’uomo perfetto (Ef 4,13) − in bontà, trasparenza, dono di sé, spirito di lode e di benedizione. Il progresso è infinito: ora, in verità, proprio questo può divenire motivo di scoramento. Se la mèta non la si raggiunge mai, il passo può farsi pesante: l’esodo si trasmuta in condanna a morire nel deserto (Es 14,11-12; 16,3; 17,3). Quel cibo così leggero, che è la Parola di Dio, può arrivare a nauseare (Nm 21,5). Ecco allora che Pietro associa all’immagine del latte il riferimento alla dolcezza del Signore (1 Pt 2,2): il Signore, sotto forma di Parola, è sperimentato quale cibo buono, dolce, succulento (Is 55,1-3). La dolcezza, come ogni qualità relativa al gusto, non può essere vissuta al passato, quale memoria, né al futuro, quale speranza, ma solo al presente, quale esperienza in atto: leggere e pregare il Vangelo non è una pratica pia né un’ascesi morale, bensì un’esigenza d’amore, propria di chi abbia gustato, e giorno dopo giorno continui a gustare, quanto è buono il Signore (Sal 34/33, 9). «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: / più del miele per la mia bocca» (Sal 119/118,103, secondo la versione CEI del 1974): questa esperienza, in fondo, è l’unica giustificazione credibile del primato che l’ascolto del Vangelo chiede di avere nella vita cristiana.
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